Éric Fassin
Aoc.media
05/10/2019

In Brasile, stiamo assistendo a una strana esperienza di travestimento: la parodia della democrazia va di pari passo con il ribaltamento retorico della gerarchia dei privilegi. Classe, sesso e razza: la nozione di intersezionalità è utilizzata invertendone la sua dimensione emancipatrice. È il momento neofascista del neoliberismo.

Il Brasile di Bolsonaro non è un’eccezione e non può essere ridotto a un’aberrazione culturale. Al contrario, è un caso esemplare che illustra una deriva populista che tocca anche altre regioni del mondo – come la Turchia di Erdoğan, l’Ungheria di Orbán o le Filippine di Duterte. Secondo il filosofo brasiliano Vladimir Safatle si potrebbe parlare addirittura di un «laboratorio mondiale nel quale vengono testate nuove configurazioni del neoliberismo autoritario, in cui la democrazia liberale è ridotta a mera apparenza». È senz’altro possibile fare il paragone con il Cile di Pinochet, che è già servito da laboratorio neoliberale dopo il colpo di Stato del 1973. In entrambi i casi si tratta di spazzare via un partito di sinistra sostenuto dalle classi popolari (come nel caso dell’elezione brasiliana del 2018, secondo quanto dimostrano gli exit pool). Queste, in effetti, hanno tratto beneficio dalle politiche di sinistra: secondo la Banca Mondiale, tra il 2004 e il 2014, la Bolsa Familia ha strappato 28 milioni di brasiliani alla povertà. In entrambi i casi, si è trattato di far entrare in scena i «Chicago Boys»: la svolta neoliberista tardiva di Jair Bolsonaro, espressa dalla scelta annunciata all’inizio della campagna presidenziale di affidare l’economia a Paulo Guedes, ha rappresentato la condizione che ha reso la sua ascesa al potere possibile.

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